di Laura Baldisserotto
Capitolo 11, tratto dal libro "Parlami", editore EricksonLive
Quando si è genitori di un ragazzo con disabilità, ci si sente responsabilizzati a vita, perché i bisogni propri vanno in parallelo con quelli del figlio e a questi ultimi si dà priorità
assoluta.
In pratica, si pensa, si ragiona per obiettivi propri e per il figlio, quindi sempre come se la mente corresse su due binari, come se il figlio fosse ancora piccolo e avesse bisogno di noi
costantemente. I sogni, le aspirazioni vanno insieme, s’incrociano, si dividono: è una vita intrecciata.
Per quanta autonomia acquisti il figlio, questi dipende sempre dal genitore, a parte nel caso felice in cui riesca a trovare un compagno o una compagna di vita.
Questo legame è per entrambi allegro, ma diviene pesante, quando la prestazione da dare diventa elevata. In tale situazione, il fatto di restare staccati, perché in giorni stabiliti X frequenta
il papà in un’altra città, ci aiuta moltissimo. Entrambi abbiamo la possibilità di rilassarci, di stare un pochino meglio oppure, al contrario, di cercarci curiosi di sapere cosa sta facendo
l’altro e di coccolarci da lontano.
Saper parlare e poter esprimere verbalmente le proprie emozioni unisce molto.
Adesso X ha ventisei anni e da un po’ di tempo si confida di più: mi racconta dei suoi innamoramenti e delle sue impressioni sulle persone, mi chiede consigli su amicizie, Facebook, appuntamenti
da organizzare, su come esprimersi correttamente via sms o Messenger, e così via.
Mi sarebbe piaciuto avere un rapporto così unico e stupendo con mia madre.
All’abbraccio, che è una sorpresa vicendevole ogni volta, ora si alterna la confidenza, il dire cose importanti, che ti danno la conferma che il rapporto instaurato è e rimarrà unico. Una
rassicurazione che serve a entrambi per confermare che la vita è amore, stima, fiducia nell’altro e accettazione dei propri difetti.
La saturazione di cui parlavo prima, infatti, avviene perché ci si sente fragili, incapaci di rispondere reciprocamente ai bisogni dell’altro e si va in crisi, non si sa più cosa fare. Si tende a
respingere il problema o la discussione perché non si hanno risposte.
Quando ci rincontriamo o facciamo pace — ce la chiediamo reciprocamente quando sbagliamo — è bellissimo, abbiamo il sole in viso.
Il mondo, la vita, ci sorride e ci dà un’altra possibilità.
Ci si sente più forti di prima.
È un qualcosa che resta tra noi, che l’esterno non conosce, ma che ci fa crescere.
Infatti, migliorare è la parola che caratterizza X e che mi ripete con insistenza. In quel momento sono contenta, perché significa che sta guardando verso il futuro, anziché fossilizzarsi o
intestardirsi su una cosa.
La riflessione e il ricordo servono a elaborare, ma se la vita che si conduce è piuttosto monotona è facile lasciarsi andare e stare male.
Non c’è molta vita sociale per il disabile. Purtroppo deve sempre cercarla. Non sempre quando dà agli altri è capito, perché i suoi mezzi di espressione verbale e motoria, per quanto si sforzi,
sono limitati e limitanti.
Forse è in questi momenti che il genitore diventa necessario. Il genitore aiuta a realizzare quanto è nell’animo del figlio di fare o di dire, come un interprete.
Mi auguro che X trovi una persona che lo capisca, lo apprezzi per com’è e lo aiuti a realizzare i suoi sogni per renderlo felice.
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