La malattia in famiglia

Le parole "guariscono"

 

Dire tutto o nascondere la realtà? Esprimere il dolore e la paura o far finta che niente sia cambiato? Non è facile spiegare ai figli che la mamma o il papà si sono ammalati e devono affrontare un percorso di cure. I bambini soffrono e glielo si legge in faccia, loro le emozioni non riescono a nasconderle. E il loro dolore, la loro paura, fanno soffrire i genitori più ancora della malattia stessa. In queste pagine abbiamo raccolto due storie: quella di Tiziana, colpita da tumore al seno, che ha scelto la strada della sincerità assoluta con le figlie, pagando sulla sua pelle la sofferenza delle bimbe ma ricevendo in cambio il grande conforto della vicinanza. E poi quella di Carlo che, al contrario, ha fatto della malattia un segreto impenetrabile, mettendo in scena la commedia della famiglia felice, a scapito della possibilità, per sé e per la moglie, di esprimere i loro veri sentimenti. Pubblichiamo infine l'intervista allo psicologo Fabio Sbattella, che, in estrema sintesi, consiglia di parlare sempre, di dire tutto ai figli, di non eludere le loro domande e paure. Perché, dice, «di fronte al male e alla malattia si può sempre costruire qualcosa di buono».

 

 

 

Riproduzione  parziale dal n. 140 di "Noi, genitori & figli" del 25/04/10

 

di Paola Fumagalli

 

DIRSI TUTTO E CONFORTARSI

TIZIANA, UN TUMORE AL SENO E DUE FIGLIE DI 4 E 10 ANNI: «LA PICCOLA MI ACCAREZZAVA LA TESTA SENZA CAPELLI, LA GRANDE NON HA MAI VOLUTO VEDERMI SENZA PARRUCCA»

 

Ero disperata ma nonostante il mio carattere emotivo sono riuscita a parlare alle mie figlie senza lasciarmi travolgere dal pianto». Mamma Tiziana, allora 37enne, racconta così la difficoltà di spiegare alle sue bambine di 4 e 10 anni cosa l'aspettava dopo la diagnosi di tumore al seno. «Sono trascorsi 7 anni, ma ricordo quel momento in ogni dettaglio — continua Tiziana -: eravamo sul divano, vicino all'albero di Natale e al presepe. Io e mio marito le tenevamo in braccio. Ho spiegato che sarei ricoverata in ospedale per una decina di giorni, che avevo una malattia e che per curarmi avrei perso i capelli. Ho detto che era una specie di influenza, solo un po' più lunga, ma che sarei guarita. Sono stata attenta a utilizzare un linguaggio adatto alla loro età, in modo che mi potessero capire. Non ho mai pronunciato la parola tumore».

 

Prima di affrontare le piccole, i genitori si erano confrontati con la psicologa. «Ero molto preoccupata per la bambina di 4 anni, però poi ho avuto più difficoltà con la sorella maggiore. Lei non ha mai voluto vedermi senza parrucca o cappello, mentre per la minore la mia testa pelata non è stata una difficoltà. Ricordo che mi accarezzava con tranquillità, che mi lavava i capelli che non avevo».

 

In quei mesi Tiziana ha parlato più volte con le insegnanti, perché voleva capire se a scuola le figlie mostrassero segni di sofferenza o disagio. «Ero pronta a portarle da uno specialista — sottolinea — ma non è stato necessario, forse proprio io stessa sono stata aiutata molto, in primis da mio marito». La donna ha frequentato il corso di gruppo ideato dall'associazione valdostana Viola (Viviamo insieme offrendo lavoro e amore) proprio per supportare le donne durante la malattia. «Consiglio a chiunque questi incontri — evidenzia la mamma -perché ci si confronta con persone che stanno affrontando le medesime difficoltà, che non ti conoscono, non ti giudicano, ma ti capiscono e ti aiutano». L'associazione Viola tra le diverse attività organizza anche corsi per i familiari dei malati oncologici e presta alle pazienti le parrucche. «Sono passati diversi anni e mi rendo conto che in quel periodo ho viziato le mie figlie, soprattutto la più piccola. Avrebbe potuto chiedermi qualsiasi cosa, anche la luna, io gliela avrei data. Mi rendo conto di aver sbagliato, ma era così in tenera età e io in quel momento avevo paura di morire e volevo lasciarle un ricordo positivo della sua mamma». Tiziana ora è una delle volontarie di Viola: «Per quanto riguarda la mia salute oggi sono serena anche se ho incontrato persone che hanno avuto ricadute». La paura, semmai, si riversa sulle figlie: «Adesso che stanno crescendo ho il terrore che si possano ammalare anche loro». La malattia ha lasciato il suo segno.

 

FINGERE E SENTIRSI SOLI

 

CARLO, 32 ANNI, UNA MALATTIA INVALIDANTE E DUE BIMBI DI 5 E 9 ANNI. «CI SFORZAVAMO DI NASCONDERE LA VERITÀ: UN ERRORE PERCHÉ CI SIAMO NEGATI LE LACRIME»

 

La gravità della mia malattia ha spiazzato me e mia moglie, avevo solo 32 anni e di fronte a una diagnosi così pesante il primo pensiero è stato di preservare dall'angoscia i nostri piccoli di 5 e 9 anni. La malattia mi ha reso gravemente invalido per il resto dei miei giorni, ma a lungo in famiglia abbiamo cercato di fare come se non esistesse perché non riuscivamo a parlarne senza piangere e non volevamo farlo davanti ai bambini». Carlo e la moglie

 

Giovanna sono consapevoli di aver sbagliato, ma desiderano raccontare la loro storia proprio per evitare che altri genitori commettano lo stesso errore. «Sono trascorsi diversi anni — continua Carlo -; allora non si usava portare bambini così piccoli dallo psicologo, non c'era un servizio pubblico e quello privato era molto costoso e la malattia non ci permetteva di fare previsioni su come sarebbe cambiata la nostra vita dal punto di vista economico. Un po' ingenuamente ci siamo adattati alla situazione, recitando una serenità fittizia: facevamo il pic-nic tendendo la coperta stesa sul lettone, fingevamo che tutto fosse a posto. Praticamente abbiamo escluso i bambini da quanto stava accadendo nella nostra famiglia. Con il dolore nel cuore, mia moglie ha radunato tutte le sue forze per fare in modo che la vita apparentemente scorresse come sempre. Ad esempio, i bambini erano abituati che prima della nanna la mamma cantasse una canzone. E mia moglie ogni sera con il fiato che le si spezzava in gola cantava per loro un motivetto il più possibile allegro e spensierato».

 

Questa messa in scena ha portato delle conseguenze pesanti nella vita della famiglia. «Il risultato di questa folle operazione di mistificazione - continua Carlo — è stato che ognuno si è sentito terribilmente solo di fronte a un problema così difficile. Il figlio maggiore si era convinto che la mamma se ne infischiasse della mia malattia e da allora ha sviluppato un'inconsapevole ostilità verso di lei. Mia moglie, dal canto suo, ha trascorso anni a nascondere i suoi sentimenti, piangendo di nascosto, in luoghi in cui nessuno potesse vederla». Anche il rapporto con la fede in quel periodo è stato complesso: «Mia moglie era molto arrabbiata ed è arrivata al punto di met­tere in forte dubbio l'esistenza di un Dio che permettesse che questo capitasse proprio a noi, credenti praticanti e "militanti", che già avevamo sofferto molto a causa di un grave problema di salute della figlia minore. La mia fede invece ne è uscita rafforzata grazie anche all'aiuto del mio padre spirituale, che mi ha condotto per mano nel faticoso percorso di accettazione dell'invalidità». ♦

 

EDUCARE ALLA VITA. MALATTIA COMPRESA

 

L'INTERVISTA

 

Lo psicologo Sbattella: mai nascondere ai figli le proprie emozioni E, partendo dalle loro domande, valorizziamo l'idea che dal male può nascere qualcosa di buono per "spiegare" ai figli la malattia, bisogna partire dalle loro domande, della loro paure. Senza negare o nascondere la sofferenza degli adulti, cercando invece di «valorizzare l'idea che di fronte al male si può sempre costruire qualcosa di buono». È il parere di Fabio Sbattella, psicologo e psicoterapeuta, direttore dell'U­nità di psicologia dell'emergenza all'Università Cattolica di Milano.

 

Professor Sbattella, le testimonianze di Tiziana e Carlo mostrano come sia molto difficile affrontare l'argomento della malattia con i figli. Lei cosa suggerisce?

 

Per parlare ai figli della morte, della malattia inguaribile o della lotta impegnativa contro un malanno, bisogna sempre partire dalle loro idee, dalle loro domande, dalle loro preoccupazioni. Se ci interrogano su aspetti concreti o apparentemente marginali, bisogna partire da lì, anche se agli adulti sembrano questioni strane o inadeguate. Spesso il primo dubbio dei bambini riguarda loro stessi e di fronte alla notizia di un'ospedalizzazione prolungata o di un orizzonte infausto, si chiedono come faranno a continuare nella quotidianità.

 

Ci sono approcci differenti a seconda dell'età dei figli?

 

Con i più piccoli è importante individuare qualche elemento di stabilità. Nei percorsi di malattia complessi sono da mettere in conto molte incertezze: i tempi, le previsioni e le prognosi spesso non sono noti, e bambini e adolescenti respirano il clima di generale insicurezza. Per questo è necessario armarsi di pazienza, ammettendo chiaramente che alcune cose non sono chiare, o non si possono ancora sapere. Però è anche necessario individuare alcuni punti fermi: ad esempio comunicare chi andrà a prenderli a scuola, chi cucinerà per loro. Inoltre in questi contesti i bisogni emotivi dei ragazzi prevalgono su quelli cognitivi. Preoccupazione, ansia, paura fanno parte del gioco, così come determinazione, rabbia, combattività, tristezza. Ma anche sollievo, gioia per le piccole cose, desiderio di stringersi gli uni con gli altri, sbalzi di umore. Non avere paura delle emozioni è già un modo per gestirle al meglio.

 

I genitori devono nascondere le proprie emozioni?

 

No, le emozioni si possono modulare, ridurre di intensità, ma mai nascondere realmente. In questi contesti ogni tentativo di rimuovere o falsificare le emozioni genera una disturbante confusione comunicativa. E quando i figli notano che i genitori sono preoccupati - e lo notano sempre, anche in tenerissima età -, è bene esplicitare il proprio stato d'animo. Solo cosi si dimostra di non aver paura della malattia e che i problemi di salute non vanno a rovinare la qualità delle relazioni.

 

È corretto cercare di non parlare del problema e non spiegare, come ha fatto Carlo?

 

Prima dobbiamo chiederci qual è il problema che la famiglia sta affrontando, dal punto di vista del bambino. Spesso, per i piccoli costituiscono un problema le conseguenze delle malattie, altre volte i sintomi, altre volte appaiono problematiche le cure. Ad esempio, la caduta dei capelli, dovuta a una chemioterapia, può essere emotivamente impegnativa. Ma tra le conseguenze delle malattie gravi ci può essere la mancata disponibilità emotiva del genitore, che ha giustamente la testa impegnata nella sua lotta personale. Altre volte la sua assenza fisica legata ai ricoveri. Inoltre, nel tempo straordinario di lotta contro una malattia grave può essere necessario sospendere alcune atti­vità, rinunciare ad avere amici per casa, impegnare tempo e risorse mentali per accudire la casa, i fratelli, in parte lo stesso genitore malato. Tutto ciò può rappresentare un'occasione di crescita, ma anche un problema per i bambini e i ragazzi. Ecco, allora che diviene importante segnare alcuni confini tra "ordinario" e "straordinario". Il tempo di malattia è un tempo straordinario, ma in qualche modo rientra nell'ordinario. Richiede alcuni cambiamenti nello stile di vita, ma non potrà invadere e bloccare tutte le dimensioni del vivere. Inoltre le spiegazioni richieste vanno fornite senza indugio, sempre considerando il grado di istruzione e le competenze dei ragazzi.

 

Quando è consigliabile chiedere aiuto?

 

Tra le risorse a disposizione delle famiglie ci sono molti professionisti altamente qualificati, capaci di ascoltare e orientare al meglio. Il confronto con persone esterne al nucleo familiare, esperte e competenti, aiuta a pensare e agire meglio, a vedere nuove sfumature della realtà. In certi casi bisogna avere il coraggio di chiedere aiuto sia ai servizi sociali che agli amici, senza dimenticare che la vera risorsa per la specie umana è la solidarietà.

 

Il ruolo della famiglia è quello di educare alla vita, la morte e la malattia fanno parte dell'esistenza. Perché allora è così difficile parlarne con i figli?

 

 Effettivamente c'è una certa incompetenza della nostra cultura a discutere di questi temi, stretti tra l'onnipotenza della medicina e la spettacolarizzazione della morte. Ma bisogna ricordare che il compito dei genitori è quello di parlare della bellezza della vita, dei motivi di speranza che ci rendono adulti solidi e positivi, in modo da orientare i ragazzi alla crescita coraggiosa e alla navigazione fiduciosa nel mare della vita. (P.F.) 

 

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